Il futuro di Arredo & Design: la realtà virtuale

Se ne parlava già da qualche tempo, ma soltanto a seguito della recente “rivoluzione” causata dalla pandemia di Coronavirus quella che un tempo era prevalentemente una tendenza si sta trasformando in una soluzione sempre più tangibile e diffusa: la realtà virtuale come nuova piattaforma per il settore di Arredo e Design (così come per molte altre industrie, a più ampio raggio).

In considerazione del fatto che la stragrande maggioranza degli utenti utilizza ormai il proprio smartphone, tablet o computer per progettare ed effettuare i propri acquisti, è diventata sempre più imperante la necessità delle aziende di offrire esperienze digitali e multimediali totalmente immersive.

A partire dalla cosiddetta “realtà aumentata” che aveva già iniziato a prendere piede attorno al 2017 (si pensi ad esempio all’app di Augmented Reality basata sulla tecnologia ARKit di Apple), la possibilità di definire arredi, prodotti, complementi e abbinarli e combinarli all’interno di un ambiente virtuale ha rappresentato la parola d’ordine del settore.

In termini pratici, questo significa che i brand di interior design che saranno in grado di comunicare tutto il valore dei loro prodotti, offrendo al contempo la possibilità di collocarli in ambienti digitali, si vedranno sempre più favoriti negli acquisti online da parte degli utenti.

L’evoluzione dalla realtà aumentata alla realtà virtuale (così come alla realtà mista) è relativamente recente e, quasi certamente, la tendenza è sostenuta e strettamente interconnessa all’esperienza COVID-19, che ha costretto le aziende tutte a spingere sull’acceleratore delle tecnologie per offrire servizi sempre più evoluti e flessibili.

Di fatto, la realtà virtuale per il settore Arredo & Design consiste nella proposta di ambienti (intesi come stanze, aree o addirittura edifici completi) in costruzione, parzialmente realizzati, finiti o ancora in fase di progetto. 

In questo modo, il cliente o l’osservatore digitale ha la possibilità di penetrare negli spazi senza alcuna necessità di trovarsi fisicamente sul posto, così come di muoversi all’interno di essi. La tecnologia, che è costantemente in fase di evoluzione, consente di aggiungere contenuti multimediali di diversa tipologia (dai testi scritti ai video, dalle immagini alle didascalie di spiegazione, e via discorrendo) e può essere erogata in diverse modalità.

Esistono quindi diversi tipi di realtà virtuale. Vediamo insieme i più degni di nota.

Cos’è la realtà virtuale: le principali tipologie disponibili

In termini generali, si definisce Virtual Reality (realtà virtuale) una realtà simulata utilizzando un ambiente tridimensionale che viene progettato e costruito digitalmente.

Tale ambiente virtuale può essere esplorato, ossia è possibile interagire con esso, utilizzando particolari strumenti quali guanti, auricolari o visori che “trasportano” l’osservatore in uno spazio talmente realistico da sempre in tutto e per tutto concreto.

Al fine di ottenere questi risultati, è possibile utilizzare diverse modalità:

  1. La realtà aumentata: consiste nel potenziare e nell’arricchire la percezione di un ambiente attraverso diversi contenuti digitali e input che, in real time, permettono di conoscere in modo più dettagliato un ambiente o sua parte di esso. Non si tratta di una realtà “immersiva” come quella virtuale, ma resta comunque una tecnologia estremamente inclusiva e interattiva di cui è possibile fruire con device ormai a disposizione di tutti. Un esempio? Gli smartphone.
  2. La realtà mista: chiamata anche MR o Mixed Reality, è una tecnologia che ha la peculiarità di mescolare la realtà fisica con quella virtuale utilizzando la realtà aumentata. Si crea dunque una sorta di sovrapposizione tra il piano concreto e quello virtuale, offrendo all’osservatore la possibilità di immergersi nell’ambiente che lo circonda ottenendo al contempo informazioni utili su di esso. Un’altra caratteristica della realtà mista risiede nella possibilità di osservare e muovere oggetti virtuali all’interno di uno spazio reale.
  3. La realtà virtuale: è la tecnologia in assoluto più evoluta e quella a cui punta sempre di più il settore Arredo & Design. Prevede il completo isolamento dell’ambiente esterno, che viene trasferito e riprodotto in dettaglio in una realtà parallela che è, per l’appunto, virtuale e totalmente immersiva. Di fatto, questa tecnologia rende tangibili ipotesi progettuali che ancora non esistono, oppure trasporta l’osservatore in un ambiente esistente senza che la persona debba trovarsi fisicamente al suo interno, annullando lo spazio e il tempo.

Il settore Arredo & Design sembra sempre più intenzionato a sfruttare l’incredibile potenza della Virtual Reality per comunicare con il proprio target di riferimento attraverso una interazione profondissima tra utente e ambiente.

Come? Non soltanto mostrando le proprie realizzazioni, ma anche suggerendo progetti e scelte stilistiche, tecniche o cromatiche, collocando oggetti nello spazio, personalizzando gli ambienti in funzione delle esigenze del committente e permettendogli di osservare un progetto prima ancora che sia fisicamente compiuto.

Digital Plaza: lo strumento per l’Interactive Virtual Tour

Quella dell’Interior Design è una delle numerose industrie che possono beneficiare delle straordinarie potenzialità di Digital Plaza, il Virtual Business Place progettato dal team NAXA per ospitare, collaborare e interagire in massima libertà e piena sicurezza, a prescindere dal luogo e del momento.

Digital Plaza è, di fatto, uno spazio virtuale in cui il brand può incontrare partner, collaboratori e clienti e che permette al visitatore di entrare virtualmente in azienda o in qualunque specifica location.

In particolare per il settore Arredo & Designl’Interactive Virtual Tour in 3D si pone come strumento di realtà virtuale evoluto che consente l’esplorazione e l’interazione con ambienti estremamente dettagliati, offrendo all’utente la possibilità di immergersi completamente nello spazio utilizzando il proprio device e una connessione ad Internet.

Si tratta soltanto di uno dei diversi strumenti progettati per rendere Digital Plaza un’experience a trecentosessanta gradi sia per l’impresa che per i suoi interlocutori. La rosa delle soluzioni proposte è infatti molto ampia, e include sale meeting virtuali e personalizzabili, configuratori di prodotto, eventi digitali, render in tempo reale, e webinar/web-conferencing e corsi di formazione.

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Core Web Vitals: cosa sono e come influiscono sulla SEO del 2021

Si chiamano Core Web Vitals e sono un nuovo fattore di ranking nel posizionamento organico sui motori di ricerca, ossia la ben nota SEO, che secondo Google farà la differenza nei prossimi mesi. È dunque opportuno comprendere in modo chiaro cosa siano esattamente e come potranno influenzare la performance di una pagina web o di un intero sito.

In questo pratico articolo, cercheremo di esplorare un po’ più in dettaglio queste nuove metriche di posizionamento, a partire dalla loro definizione, senza dimenticare che sono soltanto una delle diverse discriminanti di cui dovremo tenere conto per implementare l’ottimizzazione sui motori di ricerca nel 2021.

Cosa sono i Core Web Vitals

Core Web Vitals sono un set di tre metriche di experience sulla pagina web che Google considera cruciali per la SEO del 2021. Mettono al centro del potenziale di posizionamento organico di un sito o di una web page l’UI, ossia l’esperienza dell’utente che si trova a navigare sulla pagina e a interagire con i diversi elementi che la compongono.

Questi tre fattori di ranking sono i seguenti:

  • LCP, ovvero Largest Contentful Paint: definibile come il tempo di rendering dell’elemento più grande della pagina web in funzione delle dimensioni della schermata (viewport) del browser, sia esso sullo schermo di un computer che su quello di un dispositivo mobile. Più basso sarà questo valore, più rapido sarà il caricamento della pagina e dunque la sua performance in termini di esperienza dell’utente.

  • FID, ovvero First Input Delay: questa metriche identifica il tempo che passa tra la prima interazione dell’utente con la pagina web e la risposta del browser a quella interazione. In pratica, è definibile come il tempo impiegato dal browser a reagire agli input dell’utente, sia che si tratti di click su link, che di touch su pulsanti azione, che di reattività di un player. L’ambito di misurazione sarà in questo caso la rapidità di interazione, e quindi tanto più basso sarà il valore, maggiore sarà la performance della pagina.

  • CLS, ovvero Cumulative Layout Shift: definibile come la metrica di stabilità visiva della pagina web che l’utente sta esplorando. In sintesi, misura i cambi di layout che si verificano durante la visita dell’utente e che possono influenzarne negativamente l’esperienza di navigazione, ad esempio modificando la posizione di un pulsante. Nuovamente, più basso sarà questo valore, migliore sarà la performance e l’esperienza dell’utente.

Per Google, l’esperienza dell’utente si affianca sempre più alla qualità dei contenuti

Core Web Vitals, ossia le metriche di user experience, vengono ora considerati da Google come coerenti e complementari alle metriche di ricerca a cui i digital marketer sono abituati a fare riferimento nello studio della SEO di un sito web (vedi immagine a fine paragrafo).

Questo non significa (almeno per il momento) che i siti web che presentano ancora oggi un’esperienza utente “povera” non saranno più posizionati tra i primi risultati della ricerca, quanto piuttosto che il fattore dell’UI giocherà progressivamente un ruolo sempre più centrale nella SEO.

Google afferma infatti: “Prioritizzeremo comunque le pagine web che includono i contenuti più informativi, anche se alcuni espetti dell’esperienza utente sono insufficienti.”

Attenzione però: ignorare la centralità sempre più preponderante dei Core Web Vitals sarebbe un errore. Al contrario, il momento attuale va considerato ideale per rimettere mano all’aspetto dell’esperienza utente di qualunque sito web, così da ottimizzarlo nel pieno rispetto delle nuove logiche di posizionamento che Google considera fondamentali.

Come migliorare i Core Web Vitals del tuo sito web?

Come operare per migliorare in modo significativo i Core Web Vitals del tuo sito web in modo che Google noti la differenza e incrementi la tua SEO?

L’approccio all’esperienza utente di qualunque sito web dovrebbe sempre essere studiato con il supporto di marketer e web designer preparati, non soltanto competenti da un punto di vista tecnico ma anche aggiornati in termini di web marketing trend. In questo modo, sarà possibile differenziare la tipologia di intervento a seconda delle caratteristiche specifiche dello strumento digitale su cui bisognerà lavorare: va da sé che un sito che opera su Shopify avrà logiche molto diverse rispetto a un sito basato su WordPress, solo per fare un esempio.

Tuttavia, puoi senza dubbio iniziare a familiarizzare con queste nuove metriche di ranking andando su Google Search Console e cliccando proprio sull’opzione “Core Web Vitals”.

Dai un’occhiata ai grafici presentati in pagina, prestando particolare attenzione a quelli dedicati al Mobile, che è sempre più cruciale nella navigazione degli utenti (e quindi anche nella tua strategia). Ciò che vedrai è il risultato della nuova libreria JavaScript e delle API che Google ha messo a punto per il tracciamento e la misurazione di questi parametri.

In particolare, ricorda che puoi utilizzare Google Tag Manager per tracciare gli utenti del tuo sito sfruttando le API a tua disposizione.

Il tuo obiettivo a intervento ultimato sui Core Web Vitals sarà quello di ottenere un valore di “poor URLs” pari a 0, ossia nessuna pagina del tuo sito con una performance di UI scarsa o addirittura insufficiente.

Dovrai poi valutare quale delle tre metriche tra quelle che abbiamo esplorato insieme in questo articolo sia particolarmente problematica per il tuo sito web e intervenire di conseguenza, col fine ultimo di ottenere uno strumento digitale fluido, omogeneo e funzionale per i tuoi utenti.

Vuoi migliorare non soltanto la qualità del content del tuo sito web e anche i suoi Core Web Vitals? Vieni a parlarne con noi di Naxa!

Lead Nurturing: come nutrire i tuoi contatti con contenuti di valore

Il Lead Nurturing è l’insieme delle tecniche di digital marketing che permettono di costruire relazioni con utenti non ancora pronti per l’acquisto ma che potrebbero rivelarsi clienti ideali in un prossimo futuro.

Come potrai facilmente immaginare, l’obiettivo primario di questa attività risiede nell’educare il prospectcostruire la sua consapevolezza nei confronti di un determinato brand o prodotto e, più di tutti, sviluppare con lui un rapporto di fiducia. È infatti proprio questo, prima di qualunque altro, il valore fondante che sta alla base di ogni acquisto.

In definitiva il Lead Nurturing ha senza dubbio lo scopo finale di generare conversioni (e dunque profitto per l’azienda) partendo da contatti acquisiti ma non ancora fidelizzati, ma non va semplicemente interpretato come una tecnica di vendita. Al contrario, si basa piuttosto sulla virtuosa conduzione dell’utente lungo il funnel (che è, di fatto, un percorso) in modo da guidarlo prima all’acquisto, poi alla retention e infine al referral.

Come funziona il Lead Nurturing in termini pratici

Abbiamo spiegato che il Lead Nurturing consiste nell’accompagnamento degli utenti lungo il processo d’acquisto.

Questo percorso è il risultato della combinazione tra diverse operazioni che dovranno essere integrate in una strategia multicanale, ossia utilizzando diversi strumenti e piattaforme messi a disposizione dal digital marketing. Ciascuno step del percorso avrà l’obiettivo di far entrare in relazione il brand con i suoi potenziali consumatori, stimolandone la curiosità e l’interesse e guadagnandosi la loro fiducia attraverso l’erogazione di contenuti interessanti, utili e rilevanti.

Tenendo bene a mente che ogni singolo lead si trova in un forma mentis differente da quella di tutti gli altri nel momento in cui inizia il funnel di acquisto e che, molto probabilmente, si colloca anche in un punto diverso del percorso, la creazione della comunicazione con i lead dovrà tararsi in modo customizzato.

I marketer agiranno dunque a monte segmentando il pubblico così da effettuare azioni mirate sui diversi target: in questo senso, tecnologie come la marketing automation o anche il machine learning si riveleranno utilissime, specialmente nel caso di database molto grandi.

L’automazione, nello specifico, permetterà di programmare una serie di azioni che sarebbe impossibile gestire manualmente. Tra queste, le più importanti includono:

  • L’inbound marketing, con la creazione di particolari funnel TOFU, MOFU, BOFU
  • L’email marketing, automatizzando l’invio di messaggi personalizzati al momento giusto e ai contatti giusti
  • Il social media marketing, programmando conversation calendar coinvolgenti e specifici
  • Il social media advertising, progettando e programmando campagne pubblicitarie sui social
  • Le campagne Google Ads, attraverso l’erogazione di annunci su Google tarati su segmenti di pubblico specifici

Il Content Marketing – inteso come ideazione di contenuti di valore da declinare su diversi media o strumenti, con lo scopo di attrarre, sedurre, interessare, convincere e fidelizzare gli utenti, è al cuore delle attività di Lead Nurturing.

I vantaggi del Lead Nurturing

Strutturare una strategia di Lead Nurturing calibrata comporta senza dubbio impegno e risorse, ma genera anche una serie di innegabili vantaggi.

Non soltanto permette all’azienda di coltivare il rapporto con i suoi potenziali clienti, imparando a comprenderne desideri, aspettative, criticità, ma offre anche la possibilità di incrementare la brand reputation (ossia la propria autorevolezza) intesa come influenza che l’organizzazione è in grado di esercitare sul proprio pubblico attraverso la proposta di contenuti informativi e interessanti, di risposte puntuali e approfondimenti realmente utili.

Il Lead Nurturing genera anche un incremento dei tassi di conversione perché, basandosi sull’accrescimento del valore insito nella relazione tra impresa e cliente, porta a un aumento dei clienti che tendono a fidelizzarsi dopo il primo acquisto.

Se studiato correttamente, un buon programma di Lead Nurturing consente anche di programmare in anticipo e con cadenze regolari i contenuti da proporre, e di definire a monte i canali attraverso i quali erogarli a seconda dei diversi target che dovranno colpire. La pianificazione è un’attività che, di per sé, produce un risparmio di tempo e risorse per qualunque azienda.

Infine, sul lungo termine il Lead Nurturing dà vita a pubblicità gratis per l’azienda, perché i clienti fidelizzati prenderanno il ruolo di ambassador, agendo come megafono del brand nelle loro comunicazioni con altri lead potenziali.

Qualche consiglio per una strategia di Lead Nurturing efficace

Alla base di un Lead Nurturing efficace vi è la capacità del marketer di produrre contenuti che agiscono su un fronte duplice: da un lato generando interesse nell’utente, dall’altro stimolando la sua volontà di comunicare con il brand.

Tali contenuti saranno il risultato dell’analisi dei lead e dei loro diversi livelli gradi di coinvolgimento con il brand: va da sé che un’azione di marketing studiata per generare Awareness (ossia conoscenza del brand) sarà diversa da quella destinata agli utenti già in fase di ConsiderationConversion o addirittura Post-Purchase (ossia riacquisto).

Quelli che ti offriamo a seguire sono quindi trucchi e consigli generali in merito a come agire per nutrire i tuoi contatti con contenuti di valore – ferma restando la necessità, da parte di ogni azienda, di rivolgersi agli specialisti di marketing digitale per definire un piano di nurturing corretto e tarato sia sulle specificità dell’impresa che su quelle del suo pubblico.

  • Studia e definisci i tuoi buyer persona: il tuo content di valore funzionerà meglio se sarà destinato a utenti che sono realmente interessati al tuo prodotto o servizio (o che potrebbero esserlo). Ricorda che soltanto studiando con la massima cura i tuoi clienti potenziali potrai costruire contenuti realmente interessanti e ingaggianti.
  • Utilizza una piattaforma di marketing automation: perché ti aiuterà a identificare, segmentare e colpire i diversi buyer persona man mano che la strategia di Lead Nurturing viene adattata e modificata sulle esigenze reali della tua azienda e/o del suo piano di marketing digitale.
  • Utilizza tecniche multicanale: il semplice email drip non funziona più. Al contrario, una buona strategia di Lead Nurturing prenderà in considerazione diversi strumenti con cui colpire diversi segmenti di pubblico, in diversi momenti e con diversi obiettivi sul breve termine. Bisogna quindi andare ben oltre il semplice email nurturing e concentrarsi sulle tante opzioni rese attualmente disponibili in ambito digitale.
  • Sii puntuale nei follow-up: quando quest’azione avviene in modo tempestivo, i benefici sono evidenti. La ragione è semplice: il lead è “caldo” e viene immediatamente stimolato dal contatto da parte dell’azienda, incrementando le possibilità di acquisto. Purtroppo, molte aziende tendono a soprassedere questo step che, invece, risulta fondamentale ai fini della conversione, rendendo nulli i risultati ottenuti con il nurturing con un follow-up tardivo che equivale, a volte, quasi a una sorta di cold call.
  • Punta alla personalizzazione: lo ripetiamo sempre. Nel nuovo concept di marketing digitale, la personalizzazione dei messaggi è al cuore di ogni comunicazione. Tanto più il lead si sentirà trattato come un individuo unico piuttosto che come un nominativo in un database, tanto maggiore sarà la possibilità che effettui l’acquisto o che si fidelizzi al marchio, consigliandolo ad altri. Il valore aggiunto del business attuale non risiede soltanto in ciò che si offre, ma nel modo in cui lo si offre.
  • Usa tattiche di lead scoring: si tratta di una metodologia utilizzata per classificare i lead e i prospect su una scala che rappresenta il loro valore così come viene percepito dall’azienda. Il lead scoring può essere implementato con la già citata tecnologia di marketing automation da ormai quasi tutte le piattaforme sul mercato, permettendo di assegnare valori numerici a certi comportamenti degli utenti, eventi di conversione o interazioni sui social network. A seconda dello score ottenuto, sarà possibile procedere al nurturing con specifiche azioni, tarate specificamente su quei comportamenti.

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LinkedIn: come costruire un profilo ottimale

Presidiare la piattaforma social LinkedIn destinata agli utenti professionali è ormai fondamentale per le aziende B2B (o B2B4C) così come per i professionisti e, in molti casi, anche per le startup. LinkedIn è inoltre fruibile da aziende e imprese trasversali per portata, dimensione e settore.

Ciò che tuttavia è indispensabile, nel momento in cui si approccia questo social network, è costruire un profilo ottimale che permetterà di sviluppare reti di contatti professionali non solo virtuose e in linea con le proprie competenze, ma anche fruttuose dal punto di vista del business.

Ma come si costruisce un profilo ottimale su LinkedIn?

Secondo la guida messa a disposizione degli utenti dalla stessa piattaforma, è innanzitutto fondamentale tenere a mente che il profilo LinkedIn va inteso come una landing page professionale che permette la gestione del proprio personal brand. Questo significa che servirà a far capire chi si è, cosa si fa e anche come lo si fa, così come quali sono i valori e i principi che guidano la propria attività professionale e i propri interessi. In pratica, il profilo LinkedIn è una sorta di storyboard personale progettato per raccontare la propria attività lavorativa.

Gli obiettivi di un profilo LinkedIn

Gli obiettivi di un profilo su LinkedIn possono essere riassunti come segue:

  • Gestione del proprio personal brand: con la definizione e lo sviluppo della percezione di sé da parte di altri professionisti attraverso la descrizione di competenze, esperienze e qualifiche.
  • Creazione di opportunità professionali: calibrate sui propri skill, che pertanto dovranno essere descritti al meglio. Va infatti tenuto presente che, attualmente, questo social network è considerato focale nella ricerca di nuovi profili da parte dei team HR delle aziende.
  • Costruzione di network e tracciamento delle milestone professionali: LinkedIn permette di descrivere e condividere i traguardi professionali raggiunti, così da mostrare e “sponsorizzare” il proprio talento ad altri membri della community.

Qualche consiglio per creare un profilo LinkedIn perfetto

Ora che abbiamo esplorato più in dettaglio cos’è LinkedIn e quali sono i suoi obiettivi principali, entriamo nel merito della creazione del profilo.

Come operare al meglio per dare vita a un profilo LinkedIn che possa davvero generare risultati soddisfacenti per un professionista?

Ecco i consigli chiave secondo il support center della piattaforma.

  • Attenzione alla scelta della foto: su LinkedIn, è sempre meglio optare per una foto che esalti l’aspetto della professionalità. Dovrà essere chiara e di buona qualità, così da essere notata in mezzo a una miriade di altri profili. Secondo le statistiche, un profilo con una foto di buon livello ha 21 volte più opportunità di essere notato rispetto a profili che non mostrano alcuna immagine.
  • Immagine di background: LinkedIn non prevede soltanto la presenza di una foto del profilo, ma anche di un’immagine di background. Si suggerisce di personalizzare anche questo aspetto della propria pagina, utilizzando una foto o un visual che sia in linea con il profilo.
  • L’importanza dell’headline: nel momento in cui crea un profilo, l’headline viene prodotta sulla base delle posizioni lavorative aggiunte dall’utente. Se è inconsistente o insufficiente per comunicare la propria identità, è sempre opportuno modificarla e personalizzarla: è la frase che chi consulta il profilo vedrà per prima, ed è dunque centrale per offrire un’idea chiara di chi si è.
  • Il summary: si tratta di una sorta di breve riassunto della propria identità professionale, competenza ed esperienza in ambito lavorativo. Dovrebbe esprimere la missione, la motivazione e gli skill del professionista in uno, massimo due brevi paragrafi. Un’altra buona strategia per compilare questa sezione consiste nell’utilizzare il classico punto elenco.
  • Le posizioni lavorative: non è necessario che il profilo LinkedIn includa tutti i lavori svolti, specialmente se tra questi ve ne sono alcuni che non più in linea con le proprie ambizioni professionali. Meglio invece concentrarsi sulle posizioni che ha un senso promuovere alla luce di ciò che si desidera ottenere dalla piattaforma o dei propri progetti futuri.
  • Mai sottovalutare l’eduzione accademica: i profili LinkedIn includono anche un’accurata sezione dedicata all’educazione del professionista. È sempre bene compilarla con attenzione e in toto, così da garantire un’ottima panoramica sotto l’aspetto della formazione, un dettaglio considerato molto importante nella scelta di un candidato.
  • Le raccomandazioni: particolarmente degna di nota è la funzione di LinkedIn che consente di richiedere raccomandazioni e valutazioni scritte sul proprio operato da parte di altri membri del network. Si tratta di un passaparola digitale che ha decisamente peso nella selezione di una risorsa o nella valutazione delle sue abilità e non andrebbe mai sottovalutato, al contrario.

Mai smettere di aggiornarsi (e di aggiornare)

Per concludere questa panoramica, suggeriamo di includere nel proprio profilo anche i corsi di LinkedIn Learning eventualmente completati, i webinar e i convegni a cui si è partecipato, i risultati raggiunti realizzando progetti o dando vita a collaborazioni con altri utenti.

Creare un profilo LinkedIn adeguato è centrale, certo, ma altrettanto lo è mantenere viva l’attenzione degli utenti con aggiornamenti regolari e azioni di ampliamento del proprio network di contatti: maggiore sarà il numero di persone che ascolteranno ciò che hai da raccontare, migliore sarà la tua possibilità di creare nuove e fruttuose partnership.

NAXA diventa socio IAB Italia!

NAXA è entrata ufficialmente a far parte della lista dei soci di IAB Italia, l’associazione fondata nel 1998 con l’obiettivo di sviluppare la collaborazione tra i diversi brand, orientandola al raggiungimento di standard di eccellenza. Dalle ricerche alle certificazioni, dalle attività formative fino ai momenti di incontro, IAB offre la possibilità di discutere e valutare scenari e mercati, così da individuare le best practice da applicare nell’industria digitale.

Particolarmente interessante è l’approccio sostenibile dell’iniziativa, che mira a garantire al proprio settore di riferimento gli strumenti giusti per continuare a fare impresa non soltanto nel presente, ma anche nel futuro.

Semplificare ciò che è complicato

Da sempre, la semplificazione delle attività apparentemente più complicate è uno dei capisaldi dei servizi digitali offerti da NAXA. In questo senso, la coesione con la filosofia di IAB Italia è molto forte, dal momento che l’associazione favorisce proprio questo approccio con l’ausilio di eventi e iniziative ormai celebri per chi opera nel digital: dallo IAB Forum alla Milano Digital Week, i soci e i partecipanti possono fruire di aggiornamenti e approfondimenti e vedere favorito il confronto tra domanda, intermediazione e offerta.

Il futuro del digital advertising è, dopotutto, anche il risultato di un costante think tank, agevolato da IAB grazie al nuovo programma di certificazioni, ai playbook e alle ricerche sulle novità di settore.

Chi sono i soci IAB

Entrando a far parte di IAB Italia, NAXA si unisce ora a un gran numero di aziende italiane che si distinguono sia per dimensione che per area di business. Il “parco soci” dell’associazione ospita infatti agenzie digitali ma anche editori, brand e tech provider, così da garantire un parterre onnicomprensivo dell’industria digitale.

NAXA ha voluto cogliere al volo questa occasione per gli infiniti vantaggi che porta con sé, non soltanto in termini di formazione e costante aggiornamento professionale, ma anche per le numerose opportunità di workshop, sponsorship, attività e progetti speciali.

Non solo: anche in termini di certificazioni IAB Italia ha molto da offrire, dal momento che nasce per accreditare l’expertise e la competenza del digital marketing e advertising delle agenzie secondo i criteri oggettivi tipici degli standard dell’associazione.

Siamo orgogliosi di essere entrati a far parte della famiglia IAB Italia!

Come creare una strategia omni-channel

Hai mai sentito parlare di strategia omni-channel (o omnicanale) o meglio ancora di omnicanalità? In questa pratica guida, ci proponiamo di offrirti tutte le nozioni principali su questo tipo di approccio di marketing, ormai sempre più utilizzato per colpire in modo quanto possibile specifico un’utenza trasversale.

La strategia di marketing omni-channel è quella che possiamo definire una gestione in perfetta sinergia dei diversi canali che l’impresa utilizza per comunicare con il suo pubblico. In questo senso ci riferiamo dunque non soltanto ai canali digitali, ma anche quelli fisici, che dovranno poi essere sommati ai touchpoint dei clienti così da monitorare la consapevolezza di brand, la sua reputazione e l’esperienza da parte del consumatore.

Ricorda che è considerato un touchpoint qualunque modalità con cui il cliente ha la possibilità di interagire con l’azienda: da persona a persona, in modo digitale attraverso i canali social, un’app o un sito web, o attraverso qualunque altra forma o modo di comunicazione.

La strategia omni-channel annulla sia lo spazio fisico che quello virtuale tra azienda e consumatore finale attraverso una comunicazione articolata su molteplici canaliovunque e in qualunque momento. In termini pratici, l’impresa che sceglie di affidarsi a questo tipo di approccio di marketing mira a essere sempre raggiungibile e a fornire di sé un’immagine perfettamente coerente, coordinata e onnipresente.

La prima regola per creare una strategia omni-channel consiste nel dare vita a una collaborazione virtuosa tra le capacità del team Sales, degli specialisti di Marketing e degli addetti al Customer Care: come vedi, la sinergia inizia in questo caso proprio dall’azienda.

Non confondere la strategia omni-channel con la strategia multi-channel

È estremamente importante che i termini omni-channel e multi-channel non siano considerati sinonimi e neppure equiparabili, poiché non lo sono. La differenza sostanziale tra queste due modalità consiste nella profondità di penetrazione del mercato associata a quella di integrazione dei diversi strumenti online e offline a disposizione dell’impresa.

Ad oggi, la maggior parte delle imprese utilizza ancora in massima parte una strategia multicanale, che impiega diversi strumenti (sito web, newsletter, social, campagne AdWords, ecc.) ma in modo non necessariamente integrato tra loro. In questo caso, come avrai senza dubbio capito, il potenziale cliente sarà raggiunto dal brand in molteplici modi, ma senza beneficiare di un’esperienza fluida e continua.

Al contrario, la strategia omni-channel si propone proprio questo obiettivo, dal momento che per sua natura integra tutti i canali di comunicazione a disposizione dell’impresa. A partire dall’analisi e dal monitoraggio del sentiment e del comportamento del proprio target di riferimento e, in modo ancora più specifico, dei clienti già acquisiti, l’azienda ottimizza in modo funzionale e coerente i suoi messaggi trasmettendoli attraverso una pluralità di strumenti.

Ma come si crea una strategia di marketing omni-channel?

Passiamo ora al cuore del nostro argomento: come fa un’azienda a creare una strategia omni-channel di successo?

La prima fase è, invariabilmente, un assessment preliminare degli strumenti e dei touchpoint a disposizione, sia fisici che virtuali, in modo da comprendere in modo chiaro cosa si possa integrare e come.

Sarà poi necessario procedere valutando con cura il comportamento dei clienti tramite gli strumenti più diversi: dalle osservazioni in-store all’analisi tramite survey dedicate, dai rapporti del customer service fino allo studio del sentiment attraverso commenti online e recensioni, per dedicare la fase seguente all’analisi competitiva dei principali concorrenti.

Successivamente si passerà allo studio e alla stesura del piano di marketing, che avrà come obiettivo quello di fornire al cliente un’experience più fluida, semplice e personalizzata, che inizia su uno strumento (per esempio in negozio), procede su un altro (per esempio sui social network) e termina su un altro ancora (ad esempio una landing page su un sito web). Il principio da tenere a mente è abbastanza lapalissiano: ogni azienda è consapevole che il cliente, per sua natura, attraversa diverse fasi prima di procedere a un acquisto e garantire loro un’esperienza complessiva soddisfacente e armonica dovrà quindi essere considerata la priorità.

Per capire ancora meglio come creare una strategia omni-channel, prova a pensare come funzionavano gli acquisti prima della rivoluzione digitale: il cliente entrava in un punto vendita, esaminava il prodotto di suo interesse e procedeva all’acquisto. Semplice, giusto?

Oggi, è invece molto più comune che il consumatore si connetta alla rete utilizzando una varietà di device diversi (laptop, smartphone, tablet…), faccia una ricerca in Google in merito alle sue intenzioni di acquisto, valuti le opinioni di altri consumatori sui social network, acquisti su un e-shop e magari ritiri in negozio. E questa è solo una delle molteplici modalità di acquisto possibili!

Ecco quindi che le aziende che sfruttano la potenza del marketing omnicanale lo fanno perché desiderano attrarre l’attenzione del consumatore e massimizzare il loro potenziale di vendita a prescindere da come e dove il prodotto sarà acquistato, conoscendo e intercettando il cliente in tutte le fasi del suo customer journey.

Nella fase prettamente decisionale e di studio della strategia omni-channel, sarà fondamentale:

  • Segmentare il tuo pubblico a seconda delle diverse modalità di acquisto e di comportamento, così da massimizzare l’impatto del tuo nuovo piano di marketing. Strumenti evoluti e ormai irrinunciabili per le aziende come Marketing Automation e CRM faranno la differenza.
  • Progettare tutti i percorsi di acquisto specifici dei tuoi clienti acquisiti e potenziali, dedicando la massima attenzione a ogni customer journey al fine di studiare i giusti contenuti e abbinamenti tra i diversi strumenti.
  • Definire la priorità dei tuoi canali di comunicazione in funzione delle abitudini di acquisto dei tuoi clienti: una strategia omni-channel non prevede che tu debba costantemente utilizzare tutti i tuoi strumenti e nello stesso modo, ma semplicemente che li integri in un percorso sinergico e armonico. Questo significa che se, per esempio, i tuoi buyer persona favoriscono l’app nel loro processo d’acquisto e solo in minima parte i negozi fisici, dovrai investire di più perché la loro esperienza digitale migliori e destinare solo una parte del budget all’in-store. Ricorda che non stai cercando di cambiare le abitudini del consumatore, ma di rispondere alle sue esigenze!
  • Investire nel customer care: si tratta di uno step da cui è impossibile trascendere, specialmente nell’epoca attuale in cui l’esperienza in post-vendita può creare una situazione “make it or break it” per la stragrande maggioranza dei clienti. In soldoni, il consumatore che sperimenta un customer care scadente sarà estremamente incline a non acquistare più da quell’azienda. Attenzione, dunque. Considerare l’after sales qualcosa di meno di una pietra miliare nella tua strategia omni-channel sarebbe un errore imperdonabile.

Ricorda infine di monitorare e analizzare con cura tutti i risultati del tuo piano di marketing omnicanale in modo da intervenire precisamente dove ritieni ve ne sia bisogno, mantenendo inalterati gli obiettivi a lungo termine della tua strategia: creare un’esperienza fluida, coerente e armonica per i tuoi clienti, incrementare i tuoi profittimigliorare la brand reputation e awareness, fare felici coloro che decidono di rivolgersi a te.

Vieni a pianificare la tua strategia omni-channel con gli esperti di Naxa.

La soluzione al distanziamento sociale per le aziende: Digital Plaza

Nel periodo storico nel quale ci troviamo, in questo momento di crisi dovuto alla pandemia di Covid-19, assistiamo ad un ribaltamento rispetto a tutto ciò a cui eravamo abituati precedentemente. Con una forte limitazione degli incontri dal vivo e della possibilità di comunicare di persona, se non un totale annullamento di ciò, risulta complicato per qualsiasi tipo di attività rapportarsi con clienti o fornitori.

Le modalità di fare business per le imprese sono quindi stravolte: ai commerciali è bloccata la possibilità di muoversi per incontri e trattative e i diversi team aziendali sono costretti allo smartworking.

Osservando minuziosamente questo scenario e analizzando le varie problematiche il nostro Business Manager, Paolo Sirtori, ha riflettuto attentamente in cerca di idee e soluzioni innovative.

Il risultato è definito da “La Repubblica” come “la piattaforma in grado di stravolgere il Sales & Marketing delle imprese”.

Digital Plaza: Connettività e Innovazione

Digital Plaza, è questo il nome dello spazio virtuale firmato Naxa che permette alle aziende di relazionarsi con il proprio pubblico nonostante questo periodo difficile. Si tratta di un virtual business place progettato per ospitare, collaborare, interagire.

La piattaforma ha molteplici funzionalità: da tour virtuali e interattivi in 3D che permettono di visitare l’interno di un’azienda e di mostrare i suoi prodotti in tempo reale, agli eventi digitali, con la possibilità di ospitare persone provenienti da qualsiasi parte del mondo, fino alle sale meeting interattive che possono essere prenotate direttamente dall’utente per incontri one-to-one con la forza commerciale.

Ma non solo, su Digital Plaza è anche possibile installare dei configuratori di prodotto o creare una renderistica in tempo reale dei propri spazi e dei propri prodotti.

La prima azienda che ha creduto in questo progetto è stata Provasi, marchio d’arredamento di lusso del panorama italiano che, grazie a Digital Plaza, è riuscito a organizzare un evento in streaming trasmesso in tutto il mondo e a creare fin da subito nuovi contatti commerciali anche nel mercato estero, come Cina, Emirati Arabi, Usa e Russia. Provasi è così riuscita a interagire con un pubblico molto vasto in modo innovativo,  superando gli ostacoli derivanti dall’attuale distanziamento sociale.

Digital Plaza Naxa Articolo Repubblica

Il successo dell’iniziativa

La nostra iniziativa ha attirato l’attenzione di molti, raggiungendo in un primo momento gli appassionati del settore Digital e dell’arredamento, per poi conquistare un pubblico più ampio.

Basti pensare che “La Repubblica” l’11 ottobre ha dedicato un’intera pagina a Naxa e al suo nuovo prodotto, Digital Plaza.

Altre testate hanno speso parole parole positive nei nostri confronti, come Il Giorno e Il Cittadino di Monza e Brianza, oltre a numerosi portali di informazione online, tra cui MB NewsSeietrenta.comCuore EconomicoBit Mat, per citarne alcuni.

Siamo dunque molto fieri del successo di questa iniziativa, a cui tutto il team Naxa ha partecipato con entusiasmo. Un ringraziamento speciale va a Luca Vivanti, architetto e docente del Politecnico di Milano e Torino, che ha collaborato con Paolo nella fase ideativa e di progetto, fornendo un aiuto prezioso.

Ringraziamo inoltre Provasi, che per primo ha creduto in noi abbracciando la nostra proposta innovativa.

Leggi l’articolo de “La Repubblica” a noi dedicato!

Leggi ora!

Come misurare il bounce rate del post di un blog?

Ti sei mai chiesto come è possibile misurare il bounce rate del post di un blog e per quale motivo dovresti farlo?

La risposta a questa domanda prevede necessariamente il preliminare chiarimento di almeno una definizione, quella appunto del bounce rate.

Cos’è il bounce rate e come va interpretato

Chiamato anche “frequenza di rimbalzo”, il bounce rate è il dato che ci indica quanti utenti abbiano abbandonato la pagina di un sito web senza prestare attenzione agli altri contenuti eventualmente linkati o presenti al suo interno. In termini più precisi, il rimbalzo può essere interpretato come la sessione di una singola pagina che, per sua natura, attiva naturalmente soltanto una richiesta.

È possibile asserire che, maggiore è il dato di bounce rateminore è l’interesse manifestato dagli utenti per un particolare contenuto?

Contrariamente dal credere comune, la risposta è no. Questo dato non è infatti negativo di per sé e pertanto non andrebbe mai interpretato come tale. È piuttosto un fattore che permette al marketer di avere un’idea più chiara del numero di sessioni che riguardano una determinata pagina, o meglio ancora del comportamento degli utenti che approdano sul sito per visualizzarne quella sola pagina (a prescindere dal tempo di permanenza su di essa).

Il calcolo del bounce rate deriva da nient’altro che il rapporto tra le sessioni di quella specifica pagina e tutte le sessioni.

Quali sono le ragioni per cui un bounce rate può essere alto?

Le ragioni di un determinato valore di bounce rate sono la chiave per interpretarle correttamente.

Andranno quindi analizzate tenendo conto delle specifiche di progetto relativo alla pagina del sito o del blog che si sta monitorando, e soltanto in funzione di esse sarà possibile evidenziare l’andamento positivo o negativo.

Tra le cause “positive” più comuni di un bounce rate alto vanno incluse:

  • Conoscenza pregressa dell’argomento o della tematica trattata da parte degli utenti atterrati sulla pagina
  • Perfetta rispondenza tra i contenuti presenti nella pagina e la necessità di informazioni specifiche manifestata dagli utenti

Come avrai certamente capito, quantomeno la seconda motivazione va a inquadrare un’elevata frequenza di rimbalzo come un fattore che testimonia la buona riuscita del progetto.

Tali considerazioni non andranno naturalmente riferite soltanto a una pagina del sito deputata alla descrizione di un determinato prodotto o servizio piuttosto che a una landing page informativa, ma anche a un post blog.

Nell’ambito della misurazione del bounce rate del post di un blog, in particolare, c’è almeno un altro fattore cruciale che dovrai tenere in considerazione per comprendere se questo valore sia o meno indicativo di un’azione di digital marketing di successo, ed è la durata della sessione. Maggiore è la permanenza dei visitatori sulla pagina sito (o in questo caso del content che stai analizzando), maggiore sarà – molto probabilmente – l’engagement garantito dal contenuto del tuo post blog.

Contestualizzare è la chiave per capire

La contestualizzazione rappresenta quindi, in definitiva, la chiave per misurare il bounce rate del post di un blog.

Diversamente, si correrà il rischio di valutare un parametro per sua naturale relativo come un valore numerico assoluto, tanto negativo quanto più alto, e magari modificare post blog già sufficientemente ingaggianti e in grado di coinvolgere l’utente al punto tale da soddisfare tutte le loro curiosità.

Vuoi scoprire di più in merito a una gestione ottimale del tuo blog aziendale? Vieni a parlarne con gli specialisti di Naxa!

L’importanza  di uno storytelling efficace

Nel mondo del web lo storytelling efficace ha assunto un’importanza considerevole soprattutto per chi desidera affermare la forza del proprio brand andando a coinvolgere un numero di utenti sempre maggiore.

Con il termine storytelling si identifica quella che può essere considerata una vera e propria arte, ovvero quella di raccontare storie coinvolgenti per comunicare ai lettori i valori di una certa realtà, la mission e tutto quello che “sta dietro” ai prodotti e ai servizi offerti. Si tratta di una delle tecniche di copywriting più utilizzate negli ultimi anni, considerata come vera e propria chiave di successo per una strategia di digital marketing vincente.

Storytelling letteralmente significa “raccontare una storia” e lo scopo dato dall’impiego di questa tecnica è quello di instaurare una relazione profonda con il pubblico di riferimento, coinvolgendolo attraverso un racconto che susciti emozioni nello stesso. Attrarlo, coinvolgerlo attivamente e instaurare un rapporto di fiducia diventano pertanto gli obiettivi primari e necessari perché ci si trovi dinnanzi a uno storytelling efficace. Ecco perché chi si occupa di content marketing non dovrebbe mai trascurare questo aspetto che dovrebbe, al contrario, ricoprire un ruolo di estrema importanza all’interno della strategia.

Creare una connessione umana tra chi legge e chi racconta

Lo scopo dello storytelling è proprio quello di creare un filo invisibile in grado di connettere l’utente e lettore alla realtà aziendale che ha realizzato un determinato contenuto. Non una mera raccolta di informazioni, bensì un vero e proprio racconto coinvolgente, sia dal punto di vista emotivo che da quello informativo.

La comunicazione dovrà assumere tratti unici, indispensabili per fare la differenza, per rendere riconoscibile e unico il proprio brand rispetto a quello dei competitors. Che si tratti di un blog o di una pagina istituzionale di un sito web, di post pubblicati sui social network fino alle campagne pubblicitarie, lo stile utilizzato dovrà vedere l’impiego di uno storytelling ben strutturato in quanto ogni mezzo andrà a suscitare una diversa reazione nel pubblico.

Lo scopo pertanto sarà quello di trasmettere una certa emozione, risultare autentici, creare una connessione personale con l’utente e guidarlo al compimento di una determinata azione grazie all’iter narrativo creato, capace di rispettare tempistiche e mezzi a disposizione.

Corporate storytelling: dal percorso narrativo ai ruoli

Il corporate storytelling è quindi l’alleato numero uno dell’emotional branding. Ogni realtà ha la propria personalità, carattere e temperamento che dovranno essere trasmessi da tutti i mezzi di comunicazione impiegati.

Esistono tre elementi fondamentali da tenere conto nell’iter narrativo:

  • L’emozione, ovvero rendere coinvolgenti i temi trattati, far sì che arrivino al cuore dell’utente e muovano nello stesso dei sentimenti
  • Incuriosire il pubblico, reazione connessa allo sviluppo di emozioni nello stesso, invogliarlo a conoscere ulteriormente il brand ed entrare in contatto direttamente con esso
  • Creare una connessione attiva con il pubblico, renderlo partecipe e far sì che cerchi di interagire con l’azienda.

Raggiungendo questi risultati si riuscirà ad ottenere una riconoscibilità agli occhi dell’utente, rafforzando significativamente la brand awareness. Questo fattore rappresenterà un enorme vantaggio in quello che potrebbe poi divenire un percorso guidato volto al compimento di una determinata azione ovvero, per esempio, la finalizzazione di un acquisto.

Da questo aspetto deriva quindi l’importanza di definire i ruoli per la costruzione di uno storytelling efficace. L’eroe, se così si può definire, dovrà essere il brand che vedrà come antagonista il mercato e le avverse condizioni economiche. Il percorso narrativo dovrà inoltre tener conto delle logiche del consumo, ma dovrà anche dar senso alle azioni per raggiungere gli obiettivi prefissati. L’utente dovrà potersi immedesimare nel protagonista della vicenda, quello che ha una necessità, una problematica o un obiettivo e desidera trovare la maniera migliore per superare tale ostacolo.

I canali da impiegare dovranno essere organizzati in maniera armoniosa tra loro per andare ad abbracciare l’utente, il quale si sentirà a proprio agio rispetto ai contenuti proposti dal brand, si identificherà in ciò di cui parla e sarà invogliato a entrare sempre più in contatto con lo stesso, facendo suoi i valori trasmessi. L’importanza in tutto questo percorso narrativo sarà quello di mantenere l’unicità, fattore che renderà autentici e allo stesso tempo, riconoscibili i valori del brand rispetto ai suoi competitors.

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Uno storytelling di successo: Barilla

Quando si parla di brand italiani, indubbiamente quello che negli anni ha messo in atto uno storytelling efficace, unico e riconoscibile, è Barilla.

La divisione Mulino Bianco, nota per i prodotti da forno ideali per la colazione, non parla quasi mai dei suoi articoli, non li descrive, ma trasmette quelli che sono i valori dell’azienda, ovvero il desiderio di accompagnare le famiglie nella loro quotidianità. Inizialmente l’immagine della famiglia tradizionale, seguita poi, nell’era moderna, dal ritorno alle origini, all’attenzione verso le materie prime e l’artigianalità, non a caso nelle pubblicità vi è l’immagine del noto attore Antonio Banderas che prepara personalmente la frolla per i biscotti.

Per quanto riguarda invece la divisione Barilla pasta e sughi vi è l’associazione alla preparazione dei condimenti “come se fossero fatti in casa”, l’impiego di ricette tradizionali, quelle delle nonne. Insomma, il tentativo di questo brand è quello, nonostante le dimensioni dell’azienda, di risultare vicina ai valori familiari, alla tradizione e alla genuinità.

Come ci è arrivata? Con uno storytelling efficace studiato anno dopo anno per risultare unico e coerente.

L’evoluzione del marketing: dalle 4P alle 7P del marketing mix

Marketing mix, 4P, 7P… se hai avuto a che fare con marketing, strategie e posizionamenti di mercato, probabilmente hai già sentito parlare di questi concetti. 

Nell’articolo che stai per leggere andremo a esplorare questi concetti, esplodendoli punto dopo punto, anche grazie all’esperienza degli esperti Naxa.

Continua a leggere per scoprire:

 

Cos’è il marketing mix

Il concetto di marketing mix è una pietra miliare del marketing e del business. Venne originariamente proposto da Philip Kotler nel 1960 ed è rimasto sostanzialmente inalterato per decenni.

Con questo si intende l’insieme degli strumenti necessari alla pianificazione e all’attuazione di uno specifico piano di marketing, mirato a specifici obiettivi e a uno specifico pubblico.

Quando il marketing mix ha successo? Quando la strategia raggiunge gli obiettivi previsti. Questo, a sua volta, accade quando le 4P del marketing sono perfettamente calibrate tra loro. 

Un attimo… le 4P del marketing? Di cosa si tratta?

Con 4P del marketing facciamo riferimento ai 4 pilastri del marketing, che se calibrati al meglio in una strategia porteranno questa al successo.

Cosa sono le 4P del marketing.

 

Cosa sono le 4P del marketing

Come abbiamo appena detto, le 4P sono i 4 principali pilastri del marketing: prodotto, prezzo, punto vendita e promozione. 

Andiamo a vederli uno a uno.

 

Product, il prodotto (o servizio)

Il prodotto è sempre stato il punto di partenza per una strategia di marketing. “È sempre stato”, al passato, perché in effetti oggi non è più così (ne parliamo più avanti). Anzi, a dire il vero, per noi di Naxa, non è mai stato così. Dopotutto, la prima cosa che comanda ogni strategia di marketing è il target, l’audience, il pubblico. Ma appunto, ne parliamo più avanti. 

Nella tradizione del marketing, il prodotto (o servizio) è il primo step. Il marketer deve quindi capire quali sono i suoi benefici, che necessità permette di soddisfare a chi acquista e a chi vuole rivolgersi. 

 

Price, il prezzo (che è anche un canale di comunicazione)

In base al prodotto (e all’audience), il marketer dovrà definire un prezzo

Il prezzo non è solo una questione di soldi. Il prezzo è anche (e soprattutto) una leva di comunicazione, un fattore che permette di incidere sul valore percepito di un prodotto (o di un brand).

La valutazione del prezzo comprende, oltre all’analisi prettamente business dei costi di produzione e distribuzione, anche le scelte più “markettare”, come il posizionamento rispetto ai competitor e gli eventuali sconti o promozioni.

 

Place, il “luogo”, quindi punto vendita o canale distributivo

Il “luogo” è “dove” i clienti possono trovare il prodotto. Comprende la scelta dei canali distributivi: i punti vendita fisici, la vendita online tramite e-commerce o marketplace, e molto altro. 

Promotion, ossia la promozione

L’obiettivo della promozione è comunicare al pubblico il valore di un determinato prodotto o servizio. La promozione comprende la comunicazione aziendale, la pubblicità online e offline, e più in generale, la strategia media e PR.

Diverse persone che lavorano in gruppo

L’evoluzione del marketing: le 7P

Di recente, al fine di migliorare ulteriormente le strategie di marketing sia per precisione che per potenzialità di redemption (e in questo caso le nostre due P sono del tutto casuali), i marketer hanno aggiunto tre ulteriori direttrici sulle quali pianificare le azioni. Si è passati dalle “semplici” 4P del marketing mix alle nuove, e più precise, 7P.

Le 7P del marketing mix rispondono alle condizioni sempre più mutevoli di un mercato che non è mai stato così veloce, in particolar modo perché ormai intrinsecamente connesso alla tecnologia e all’evoluzione delle comunicazioni

Queste ultime, in particolare, consentono ora di targettizzare la propria utenza di interesse in modalità che, per precisione e ricchezza di dettagli, sono del tutto incomparabili a ciò che i marketer “di un tempo” hanno mai conosciuto.

Quali sono le 7P del marketing mix? 

Oltre ai già citati prodotto, prezzo, punto vendita e promotion, le 7P del marketing mix prevedono l’inserimento di ulteriori parametri discriminanti nella creazione di strategie efficaci.

People, le persone, l’audience, il target

Persone, non semplicemente intese come clienti o consumatori, quanto piuttosto come personale umano che gestisce e lavora in un’azienda. 

Ciascuno di essi va considerato vitale per il raggiungimento di specifici obiettivi di marketing, a prescindere dal suo ruolo o dalla sua collocazione nella scala gerarchica dell’organizzazione. 

Senza le persone giuste neppure il brand più famoso non avrà successo, e la ragione è semplice: gli esseri umani sono parte del marchio esattamente quanto i suoi prodotti o servizi. Ecco dunque che, nel mercato attuale, è il vantaggio competitivo interno rappresentato dal capitale umano a fare la differenza.

Process, ossia il processo

Si intendono in questo caso i processi organizzativi e i sistemi che influenzano la creazione del prodotto o l’esecuzione del servizio. 

Se questi non sono fluidi e ineccepibili, inevitabilmente la qualità della proposta commerciale finirà col risentirne, e con essa la reputazione del brand. 

Oggi, le aziende operano in modo sistematico per ridurre al minimo il margine di errore, contenere le spese economiche e temporali e per massimizzare i profitti offrendo al contempo soluzioni sempre più personalizzate sul singolo utente.

Physical Evidence, ossia evidenza fisica

Questo parametro identifica la prova dell’esistenza materiale di un prodotto in quanto tale e persino di un servizio. 

Anche quando quest’ultimo è intangibile, la sua evidenzia fisica è riscontrabile nella percezione che il brand che lo eroga lascia nella mente del consumatore o, più semplicemente, nel contesto del mercato. 

In buona sostanza, la Physical Evidence è un fattore fortemente interconnesso al cosiddetto branding: se un marchio è conosciuto, la sua evidenza fisica è confermata.

Conclusione

Le 4P del marketing, prodotto, prezzo, punto vendita e promozione, sono solitamente indicate come marketing mix. Si tratta degli elementi chiave di una strategia di marketing.

Tuttavia, con l’evoluzione della disciplina, non possiamo più considerare solo questi 4 elementi come i punti cardine. Ecco che sono stati quindi inseriti altri 3 parametri, ovvero le persone, il processo e l’evidenza fisica. 

Desideri scoprire quale marketing mix è ideale per lanciare il tuo brand, il tuo prodotto o il tuo servizio?

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